Questioni per giuristi e non ...

(in continuo aggiornamento)

(Articolo del 5.05.2020)

LA MOLESTIA DI DIRITTO NELL'AZIONE DI MANUTENZIONE

1. Inquadramento delle molestie

In generale, posso essere definite molestie (di fatto o di diritto) al possesso di un immobile quelle turbative che vengono poste in essere con lo scopo di arrecare attentato all'integrità del possesso, in ragione di una modificazione o di una limitazione del precedente esercizio di esso.

La dottrina, nello specifico, ha ritenuto di configurare la molestia in relazione ad un congruo ed apprezzabile mutamento del possesso tale che abbia a profilarsi una situazione di danno, in ordine alla manifestazione del potere di fatto. Ne discende che l'elemento materiale della molestia si concretizza in un'attività che renda più gravoso l'esercizio del possesso (cfr. Procedimenti Cautelari e possessori, Autore: A.G.Diana, Edizioni UTET, pag. 1097 e ss.).

Quanto alla fattispecie, la dottrina tende a fare una distinzione tra molestia di fatto e molestia di diritto.

2. La molestia di diritto

La molestia di diritto, in particolare, importa una manifestazione di volontà la quale resta finalizzata a rendere contestazione dell'altrui possesso tanto avvalendosi di atti giudiziali ovvero stragiudiziali forniti della natura dell'intimazione, il cui scopo resta quello di imporre la cessazione totale oppure solo parziale del possesso da altri esercitato. La Corte di legittimità sul punto ha stabilito che "L'animus turbandi deve presumersi ogni volta che si dimostrino gli estremi della turbativa, restando irrilevante l'eventuale convincimento dell'autore del fatto di esercitare un proprio diritto esso si risolve nella volontarietà del fatto che determina la diminuzione del godimento del bene da parte del possessore e nella consapevolezza che esso è oggettivamente idoneo a modificarne o limitarne l'esercizio, senza che rilevi, in senso contrario, il mancato perseguimento, da parte dell'agente, del fine specifico di molestare il soggetto passivo ovvero la mancata previsione delle concrete ed ulteriori conseguenze della sua azione." (Cass. civ. Sez. II Ord., 25/09/2019, n. 23940; conforme a Cass. civ. Sez. II Sent., 14/02/2017, n. 3901).

E' bene precisare però che l'atto di natura giuridica che configura una molestia di diritto deve essere posto in essere con lo scopo di imprimere un mutamento alla situazione di fatto preesistente.

La stessa Cassazione si è espressa sul punto uniformandosi all'orientamento appena espresso stabilendo che "Ai fini dell'azione possessoria di manutenzione le turbative possono assumere la forma di molestie di diritto che si concretizzano in contestazioni avanzate in via giudiziale o stragiudiziale contro l'altrui possesso, in maniera da esporre a pericolo il godimento del bene" (Cassazione civile, sezione II, 20.05.1997, n. 4463)

Venendo ad un caso concreto.

Nell'ipotesi in cui un soggetto che sia possessore di un immobile da oltre un anno, riceva una o più diffide con cui viene contestato il possesso, le predette diffide, essendo contenute in un atto stragiudiziale, integrano una molestia di diritto contro la quale è esperibile l'azione di manutenzione da parte del possessore.



(Articolo del 27.04.2020)

LE INDAGINI SULL'ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO

1. Inquadramento della fattispecie

Tale istituto è stato introdotto dal legislatore a scopo di autotutela delle parti nei contratti a prestazioni corrispettive dove ciascuna prestazione trova giustificazione nella prestazione della controparte.

All'uopo è bene richiamare il testo della norma di cui all'art. 1460 cc, il quale stabilisce che "Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria....Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede".

Capita non di rado che la parte convenuta in giudizio per l'esecuzione del contratto contratto (ossia per l'esecuzione di una prestazione che può concretizzarsi anche in un mero pagamento di somma di danaro), richiami a propria difesa - e quindi per giustificare il proprio inadempimento - l'art. 1460 c.c.

Per verificare se il rifiuto di adempimento sia legittimo occorrerà effettuare alcune indagini, poiché tale eccezione potrà trovare accoglimento solo laddove tale rifiuto: i) trovi una concreta giustificazione da valutarsi alla stregua dei legami di corrispettività e interdipendenza tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate; e ii) non sia contrario a buona fede e, quindi, non sia determinato da motivi non corrispondenti alle finalità per le quali esso è concesso dalla legge.

1. Prima indagine: la giustificazione del rifiuto alla luce dei legami di corrispettività tra le prestazioni

Nell'eseguire l'indagine sulle ragioni del rifiuto è necessario, in via preliminare, effettuare una valutazione comparativa delle reciproche inadempienze delle parti e, conseguentemente, verificare se l'inadempimento della parte contro la quale è stata sollevata l'eccezione risulti di lieve entità o di rilevante gravità.

Solo nella seconda ipotesi il rifiuto dovrà considerarsi legittimo.

A tale proposito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la recentissima ordinanza n. 3273 del 11.02.2020 ha affermato che "nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, è necessario comparare il comportamento di entrambe le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonchè della conseguente alterazione del sinallagma" (conforme a Cassazione civile sez. II, 30.05.2017, n. 13627; Cassazione civile sez. III, 01.06.2004, n. 10477).

2. Seconda indagine: il rifiuto contrario a buona fede

Si deve partire dal presupposto che è contrario a buona fede l'aver sollevato l'eccezione di inadempimento non per stimolare la controparte all'adempimento ma per mascherare la propria inadempienza.

La Corte di Cassazione Sez. III civ., con sentenza n. 22353 del 03.11.2010 sul tema ha proprio affermato che "per la legittima proposizione dell'eccezione di inadempimento (exceptio inadimpleti contractus) è necessario che il rifiuto di adempimento - oltre a trovare concreta giustificazione nei legami di corrispettività e interdipendenza tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate - non sia contrario a buona fede, cioè non sia determinato da motivi non corrispondenti alle finalità per le quali esso è concesso dalla legge, come quando l'eccezione è invocata non per stimolare la controparte all'adempimento ma per mascherare la propria inadempienza. Al fine del relativo accertamento assume rilievo la circostanza che la giustificazione del rifiuto sia resa nota alla controparte solo in occasione del giudizio e non in occasione dell'attività posta in essere allo scopo di conseguire l'esecuzione spontanea del contratto".

In altre parole un comportamento contrario a buona fede si concretizza qualora la parte convenuta in giudizio per l'adempimento giustifichi il proprio rifiuto - e quindi renda note le motivazioni del rifiuto - all'altra parte per la prima volta solo in occasione del giudizio e non nelle more dell'esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto.



(Articolo del 20.04.2020)

UN RIMEDIO PER SANARE LA DECADENZA PROCESSUALE:
LA RICHIESTA DI RIMESSIONE IN TERMINI

1. Inquadramento dell'istituto e il primo requisito per formulare la richiesta: l'impossibilità di procurarsi la documentazione da depositare prima della scadenza del termine

L'art. 153 II° comma c.p.c. dispone che "La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini...".

Quindi la parte che doveva depositare della documentazione in giudizio ma che non vi ha provveduto entro i termini di legge, deve provare di non essere stata in alcun modo in grado di procurarsi e depositare tale documentazione prima della scadenza dei suddetti termini.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che "La rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall'art. 184-bis cod. proc. civ. che in quella di più ampia portata contenuta nell'art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., come novellato dalla legge 18 giugno 2009 n. 69, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà." (Cass. civ. Sez. lavoro, 16/10/2015, n. 20992 rv. 637732; conforme a Cass. civ. Sez. lavoro, 28/09/2011, n. 19836 nonché a Trib. Milano Sez. V, Sent., 30-01-2013).

2. Ulteriori requisiti: la tempestività e l'immediatezza della reazione della parte decaduta

La rimessione in termini presuppone inoltre la tempestività e l'immediatezza della reazione della parte incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile in tutti i casi in cui si presenta la necessità di svolgere un'attività processuale ormai preclusa.

Tale assunto trova conferma in quanto statuito dalla Corte di Cassazione, la quale ha affermato che "La rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall'art. 184-bis cod. proc. civ., quanto in quella di più ampia portata prefigurata nel novellato art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., presuppone la tempestività dell'iniziativa della parte che assuma di essere incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile, tempestività da intendere come immediatezza della reazione della parte stessa al palesarsi della necessità di svolgere un'attività processuale ormai preclusa" (Cass. Civ. 11 novembre 2011 n. 23561)

Pertanto, in applicazione di tali princip,i l'istante deve fornire la prova: i) della causa che le avrebbe impedito di depositare i documenti entro i termini; e ii) di essersi attivata tempestivamente per essere rimessa in termini al fine di depositare i suddetti documenti.

3. Ultimo requisito: la <<non evitabilità>> della causa impeditiva

Affinchè una parte possa essere rimessa in termini, l'istante deve dimostrare anche che la causa che ha determinato la presunta impossibilità di produrre in termini i documenti oggetto della richiesta non era in alcun modo evitabile.

A questo proposito la dottrina che ha esaminato la questione, ha affermato che un impedimento può essere considerato non evitabile quando è costituito da un fatto che, anche con un comportamento diligente, avrebbe impedito alla parte di compiere il correlativo atto processuale (cfr. Balena, Caponi, Chizzini, Menchini, La riforma della giustizia civile, ed. Utet, pag. 54). Non potrà essere, invece, considerata inevitabile la causa che non è stata superata per mera inerzia della parte (cfr. Amodio, Dominioni, Commentario del nuovo codice di procedura penale, vol. II, pag.248).

Pertanto l'istante deve, in virtù del principio di diligenza, richiedere al soggetto che ne è in possesso la trasmissione di documentazione utile ai fini della causa in tempo per la redazione dell'atto con cui viene prodotta.

A quanto sopra si aggiunga che non può certo essere sdoganato il principio secondo il quale, per poter produrre nuovi documenti in qualsiasi momento successivo a quello di decadenza, è sufficiente che qualcuno "si accorga" di avere in proprio possesso documenti che possono avere una qualche astratta rilevanza nella causa in corso. Diversamente opinando, tanto varrebbe affermare che i termini decadenziali sui quali si fonda la dialettica tra le parti nel processo civile non hanno in realtà alcuna importanza e possono sempre essere superati. 



(Articolo del 15.04.2020)

IL COMPORTAMENTO DEL CREDITORE NEI CONFRONTI DEL FIDEIUSSORE E DEL GARANTE A PRIMA RICHIESTA

1. Inquadramento della fideiussione e della garanzia a prima richiesta: differenze formali e sostanziali

Ai sensi degli artt. 1936 ss. c.c. è fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l'adempimento di un'obbligazione altrui, eventualmente anche condizionale o futura con la previsione, in questo ultimo caso, dell'importo massimo garantito.

Diversamente, il contratto autonomo di garanzia consiste in un accordo in forza del quale un soggetto si obbliga personalmente verso il creditore a garantire l'adempimento di una obbligazione altrui ma con la fondamentale differenza, rispetto alla fideiussione, dell'assenza della caratteristica di accessorietà della garanzia rispetto alle vicende legate all'obbligazione garantita.

La caratteristica fondamentale che distingue il contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione è l'assenza dell'elemento dell'accessorietà della garanzia, integrata dal fatto che viene esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione, posta dall'art. 1945 c.c. (Corte d'appello di Napoli, Sez. III, 06.02.2009; Cass. civ. Sez. III, n. 5044 del 03.03.2009).

Inoltre, dal punto di vista formale, come ha avuto modo di statuire la Suprema Corte "Ai fini della configurabilità di un contratto come contratto autonomo di garanzia ovvero come fideiussione non è decisivo l'impiego di espressioni quali "dietro semplice richiesta", ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia. Infatti la caratteristica principale che distingue il contratto autonomo di garanzia dalla fideiussione è l'assenza del riferimento all'elemento della accessorietà della garanzia, insito nel fatto che viene esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore principale, in deroga alla regola essenziale della fideiussione, posta dall'art. 1945 c.c." (Cass. Civ. Sez. l 19/6/2001 n. 8324; Cass. civ. Sez. III Sent., 03-03-2009, n. 5044).

Pertanto, la circostanza che in un accordo di fideiussione sia inserita l'espressione "a semplice richiesta" non comporta automaticamente l'esclusione della facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni che spettano al debitore. Occorrerà, infatti, a tal fine che sia prevista contrattualmente la rinuncia del garante alla facoltà di opporre le eccezioni che spettino al debitore principale, in deroga al disposto dell'art. 1945 c.c.

Fatta questa doverosa premessa, va anche sicuramente sottolineato che l'art. 1227 c.c. impone al creditore di attivarsi per limitare o eliminare i danni a lui provocati dal debitore. In assenza di tale comportamento, egli perde il diritto a ottenere quanto richiesto.

In buona sostanza, il creditore deve adoperarsi per evitare che il danno si verifichi o per impedire il suo "propagarsi"; se invece rimane inerte, egli non può più recriminare alcunché.

Nell'ambito di un contratto, quindi, entrambe le parti devono collaborare per evitare il danno. Costituisce, quindi, onere sia del debitore che del creditore salvaguardare l'utilità dell'altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico. Insomma, anche il creditore è tenuto ad un comportamento attivo e positivo per evitare le conseguenze dannose.

In altre parole viene richiesto al creditore un comportamento attivo e positivo, diretto non solo a limitare, ma anche ad evitare le conseguenze dannose. In altre parole, la "evitabilità" del danno grava su entrambe le parti del contratto (Cassazione civile, sez. II, n. 11230 del 31/05/2016).

2. La richiesta di pagamento al fideiussiore

In merito alla facoltà per il creditore di chiedere il pagamento direttamente ai fideiussori prima che al debitore principale, si osserva quanto segue.

L'art. 1957 c.c. prevede che "Il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell'obbligazione principale, purché il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate. La disposizione si applica anche al caso in cui il fideiussore ha espressamente limitato la sua fideiussione allo stesso termine dell'obbligazione principale. In questo caso però l'istanza contro il debitore deve essere proposta entro due mesi. L'istanza proposta contro il debitore interrompe la prescrizione anche nei confronti del fideiussore".

Sul punto è bene premettere che, comunque, la semplice richiesta di pagamento del creditore al debitore non va confusa con l'escussione di costui, cosa che invece postula l'attivazione dei mezzi legali di tutela del credito, con particolare riferimento all'azione esecutiva.

La dottrina prevalente che si è espressa in materia ritiene che il creditore non possa immediatamente, senza neppure aver tentato di raggiungere il debitore principale, domandare l'adempimento al fideiussore. Una siffatta condotta sarebbe infatti inconciliabile con i principi di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., che devono costantemente informare la condotta delle parti del contratto (Fragali, Fideiussione-mandato di credito, in Comm.cod.civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1968, p.74.).

3. La richiesta di pagamento al garante a prima richiesta: l'exceptio doli generalis

Nell'ipotesi in cui venga appurato che la garanzia rilasciata costituisca un contratto autonomo di garanzia - e non una fideiussione -v'è sicuramente da rilevare che, in generale, anche il garante - a prima richiesta - è tutelato di fronte al creditore dalla c.d. exceptio doli generalis.

La suddetta tutela, in generale, consente al garante di poter opporre il proprio rifiuto al pagamento nell'ipotesi in cui la relativa richiesta sia contraria alle norme imperative (Cassazione civile, Sez. III, n. 5044 del 3.03.2009).

Tra le norme imperative deve ritenersi compreso anche il rispetto del principio di buona fede previsto dagli artt. 1175 e 1375 c.c. (Tribunale di Bologna, Sez. II, 22-06-2004).

Pertanto anche nel contratto autonomo di garanzia il garante, oltre a poter eccepire l'eventuale invalidità del medesimo contratto ed a poter opporre al creditore le eccezioni che trovano il proprio fondamento nel testo stesso della garanzia (le c.d. eccezioni letterali), è legittimato, altresì, a sollevare nei confronti del beneficiario eccezioni inerenti il rapporto principale e quindi l'esecuzione fraudolenta o abusiva che costituirebbe, appunto, una violazione dei principi di buona fede e correttezza.

Infatti, se ciò non fosse previsto, verrebbe impedito al garante di opporsi alle richieste palesemente abusive del creditore e si finirebbe, dato il collegamento che inevitabilmente sussiste tra il contratto autonomo di garanzia e quello principale, con il rendere l'obbligazione di garanzia priva di causa, venendo in tal modo meno la funzione stessa della garanzia.

In sostanza è, comunque, sempre onere del creditore chiedere, in via preventiva, il pagamento al debitore principale e ciò in virtù dei principi di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., che devono costantemente informare la condotta delle parti del contratto.



(Articolo del 9.04.2020)

L'AZIONE REVOCATORIA CONTRO IL FONDO PATRIMONIALE COSTITUITO DAL DEBITORE

1. Caratteristiche del fondo patrimoniale

L'istituto del fondo patrimoniale è regolato dall'art. 167 c.c. e consiste nella destinazione di determinati beni immobili, mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito, all'esclusivo soddisfacimento dei bisogni della famiglia. La giurisprudenza della Suprema Corte attribuisce all'atto costitutivo del fondo patrimoniale la natura di atto a titolo gratuito sul presupposto che tale costituzione non comporta contropartita in un'attribuzione nei confronti dei disponenti; non vi sarebbe, in altre parole, alcun corrispettivo.

Infatti la suddetta Corte ha stabilito che "l'atto di costituzione di fondo patrimoniale riveste natura di atto di liberalità non solo quando vengano ivi destinati beni di proprietà del singolo, ma anche quando i coniugi conferiscano beni di proprietà comune poiché in tal caso non solo ha luogo una rinuncia gratuita alle facoltà insite nel diritto di proprietà in favore della famiglia, ma si verifica l'ulteriore conseguenza che, cessato il fondo per una causa prevista dalla legge, il giudice può sottrarre ai conferenti una quota dei beni attribuendola ai figli di costoro"(Cass. 2.12.1996 n.10725).

Non solo, ma la giurisprudenza di legittimità ha precisato che il fondo patrimoniale costituisce un atto a titolo gratuito "perchè non compensato da alcuna attribuzione a favore dei disponenti né da alcun corrispettivo" (Cass.Civ. Sez. III 18 luglio 2008, n. 19940; Cass. Civ. 7 luglio 2007Sez. III, n. 15310; Cass. 18 marzo 1994 Sez. I, n. 2604; Cass. 15 gennaio 1990 Sez. I, n. 107; Trib.Milano 2 giugno 1983).

In tal senso si è espressa la giurisprudenza di merito affermando che "Ai fini dell'accoglimento dell'azione revocatoria in relazione ai profili dell'eventus damni e della scientia damni rileva, oltre alla istituzione del trust oggetto della domanda, la generale attività dismissiva dell'intero patrimonio posta in essere dal debitore/disponente consistente nel conferimento dei residui cespiti immobiliari in fondo patrimoniale" (Tribunale di Firenze, 11/04/2013).

Nello stesso senso si è espresso un altro Giudice di merito stabilendo che "Il trust, ai fini dell'azione revocatoria ordinaria, deve essere considerato quale atto a titolo gratuito, ben potendo trovare applicazione, in relazione a tale contratto, l'orientamento giurisprudenziale in materia di fondo patrimoniale, secondo cui l'atto di costituzione di un tale fondo è inquadrabile negli atti a titolo gratuito, con la conseguenza che la sua revocabilità presuppone che il disponente non sia in grado di adempiere alle proprie obbligazioni assunte prima del trasferimento dei beni o anche a quelle assunte dopo, se il trasferimento era dolosamente preordinato" (Trib. L'Aquila, 27/02/2013).

Ciò premesso, la qualificazione dell'atto costitutivo del fondo patrimoniale quale atto a titolo gratuito rileva in ordine all'individuazione dei presupposti concreti per l'esercizio dell'azione revocatoria di cui all'art. 2901 c.c.

2. Le condizioni per l'esercizio dell'azione revocatoria

Lo scopo dell'azione revocatoria è quello di ricostituire la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del debitore (art. 2740 c.c.) quando tale garanzia sia stata ridotta in virtù di un atto negoziale dispositivo compiuto dal debitore. Affinché la relativa domanda possa trovare accoglimento occorre il soddisfacimento delle condizioni previste dall'art. 2901 c.c. e quindi che i) l'istante vanti un credito, nonché la sussistenza ii) dell'eventus damni e iii) della scientia damni

2.1) Il credito vantato

In primis è necessario che l'attore che agisce in revocatoria sia titolare di un diritto di credito, anche meramente eventuale (cfr. Cass sez. II n. 1220 del 26.02.1986) e non necessariamente certo, liquido ed esigibile (Cass., se. III, n. 1893 del 9.02.2012, Cass, sez. III n. 5259 del 5.03.2009).

In particolare in punto di esigibilità di tale credito si è espressa la Suprema Corte stabilendo che "L'azione revocatoria ordinaria presuppone, per la sua esperibilità, la sola esistenza di un debito, e non anche la sua concreta esigibilità. Pertanto, prestata fideiussione in relazione alle future obbligazioni del debitore principale connesse ad un'apertura di credito, gli atti dispositivi del fideiussore (nella specie, la costituzione in fondo patrimoniale degli unici beni immobili di sua proprietà) successivi all'apertura di credito ed alla prestazione della fideiussione, se compiuti in pregiudizio delle ragioni del creditore, sono soggetti alla predetta azione, ai sensi dell'art. 2901, n. 1, prima parte, cod. civ., in base al solo requisito soggettivo della consapevolezza di arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore ("scientia damni") ed al solo fattore oggettivo dell'avvenuto accreditamento; l'insorgenza del credito va infatti apprezzata con riferimento al momento dell'accreditamento e non a quello, eventualmente successivo, dell'effettivo prelievo da parte del debitore principale della somma messa a sua disposizione." (Corte di Cassazione n. 8680 del 9.04.2009).

Per quanto riguarda, in particolare, il requisito dell'anteriorità del credito rispetto all'atto dispositivo, questo va riscontrato in riferimento al momento della sua insorgenza e non già rispetto al momento della sua scadenza.

Più specificatamente in materia di apertura di credito, ai fini dell'azione revocatoria ordinaria la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che "per valutare l'anteriorità o posteriorità dell'atto dispositivo rispetto al sorgere del credito occorra far riferimento al momento dell'accreditamento stesso, e cioè della conclusione del contratto di apertura di credito regolata in conto corrente, e non a quello, eventualmente successivo, dell'effettivo prelievo da parte del debitore principale della somma messa a sua disposizione" (Cass. Civ. Sez. III 18 luglio 2008, n. 19940; Cass. Civ. Sez. III 27 giugno 2002, n.9349).

Concretamente l'esistenza della ragione di credito vantata dall'attore (qualora questo fosse un istituto bancario) potrebbe risultare da un contratto di conto corrente e contestuale apertura di credito di data anteriore alla costituzione del fondo patrimoniale. Potrebbe risultare anche da un contratto di mutuo stipulato in data anteriore alla costituzione del fondo patrimoniale.

2.2) L'eventus damni

Tale elemento deve sussistere al momento del compimento dell'atto e consiste nel pregiudizio causato dall'atto di disposizione alla generica garanzia patrimoniale a favore del creditore. Come la giurisprudenza ha più volte sottolineato tale condizione ricorre non soltanto qualora l'atto determini un danno effettivo, ma anche qualora si sostanzi semplicemente in un pericolo di danno, rendendo più incerto e difficoltoso il recupero del credito a prescindere dalla solvibilità comunque del debitore.

Per dimostrare ciò al creditore è sufficiente provare la variazione patrimoniale intervenuta, senza che si renda altresì necessario provare l'entità e la consistenza che il patrimonio del debitore presenta dopo l'atto di disposizione, gravando invece, per contro, sul debitore l'onere di provare che, nonostante l'atto di disposizione, il suo patrimonio ha conservato valore e caratteristiche tali da garantire il soddisfacimento delle ragioni del creditore senza difficoltà.

Sul punto si è espressa la Suprema Corte affermando che "Ai fini dell'azione revocatoria ordinaria, per l'integrazione del profilo oggettivo dell'"eventus damni" è sufficiente che l'atto di disposizione del debitore abbia determinato maggiore difficoltà od incertezza nell'esazione coattiva del credito, potendo il detto "eventus damni" consistere in una variazione non solo quantitativa, ma anche qualitativa del patrimonio del debitore. A tal fine, l'onere probatorio del creditore si restringe alla dimostrazione della variazione patrimoniale, senza che sia necessario provare l'entità e la natura del patrimonio del debitore dopo l'atto di disposizione, non potendo il creditore valutarne compiutamente le caratteristiche. Per contro, il debitore deve provare che, nonostante l'atto di disposizione, il suo patrimonio ha conservato valore e caratteristiche tali da garantire il soddisfacimento delle ragioni del creditore senza difficoltà. (Cass. civ. Sez. III, 04/07/2006, n. 15265).

La giurisprudenza di merito si è espressa più specificatamente in punto di atto di disposizione mediante costituzione di fondo patrimoniale ed ha stabilito che "Il presupposto per l'esercizio dell'azione revocatoria relativamente alla costituzione del fondo patrimoniale cui il debitore abbia conferito la totalità del suo patrimonio, è l'esistenza di una valida ragione di credito e l'effettività del danno ovvero l'idoneità dell'atto di disposizione a ledere la garanzia patrimoniale per il creditore (eventus damni) e la consapevolezza del debitore che con l'atto traslativo diminuisca la consistenza delle garanzie spettanti ai creditori (scientia fraudis). Quanto all'eventus damni non occorre alcuna valutazione del danno, sussistendo laddove venga dimostrata l'idoneità dell'atto dispositivo ad arrecare pregiudizio alle ragioni del creditore ovvero a rendere maggiormente difficoltosa ed incerta l'esazione coattiva del credito. In tal caso il creditore ha solo l'onere di dimostrare la variazione del patrimonio del debitore ma non anche l'entità del residuo" (Trib. Bologna, 07/03/2011).

Pertanto nell'ipotesi in cui il debitore abbia costituito in fondo patrimoniale con atto di data successiva al sorgere del debito tutti i suoi beni - così da impedire al creditore di recuperare quanto dovutogli - può dirsi che sussiste il requisito dell'eventus damni.

In altre parole, la destinazione a fondo patrimoniale di tutti i beni del debitore compromette irrimediabilmente le possibilità di soddisfacimento del credito dell'attore.

2.3) La scientia damni

L'ultimo elemento che deve essere soddisfatto per l'esperimento dell'azione revocatoria riguarda lo stato soggettivo del debitore.

Per gli atti a titolo gratuito, come quello del fondo patrimoniale, è possibile prescindere dalla consapevolezza che il terzo abbia in ordine al pregiudizio arrecato dall'atto che deve, al contrario, essere provata nel caso di atti a titolo oneroso. Conseguentemente, in ipotesi siffatta, l'azione revocatoria è esperibile ove risulti comprovata semplicemente l'esistenza dell'eventus damni e della scientia fraudis ovvero quando ricorre il fatto oggettivo del pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore e la consapevolezza di esso da parte del debitore non essendo in altri termini richiesta anche la prova della dolosa preordinazione dell'atto dispositivo al fine di pregiudicare il soddisfacimento dei creditori.

Per pregiudizio si intende anche il mero aggravio della possibile soddisfazione coattiva del creditore causato dalla diminuzione dei beni in concreto aggredibili o dall'esito più dubbio ed incerto della futura azione esecutiva.

In materia di scientia damni si è espressa la giurisprudenza di merito affermando che "La costituzione di un fondo patrimoniale è assoggettabile a revocatoria ordinaria laddove vi sia la mera consapevolezza degli autori di arrecare pregiudizio agli interessi dei creditori, ricorra cioè la c.d. scientia damni, la cui prova può essere fornita anche tramite presunzioni, senza che assuma rilevanza l'intenzione di ledere la garanzia patrimoniale generica dei propri creditori, il c.d. consilium fraudis" (Trib. Vicenza, 13/10/2011).

Nella sostanza, qualora il debitore destini a fondo patrimoniale tutti i propri beni- con atto di data successiva al sorgere del credito - e faccia ciò con la consapevolezza che il relativo atto dispositivo avrebbe diminuito il proprio patrimonio e quindi la garanzia spettante al creditore ai sensi dell'art. 2740 c.c., può sicuramente dirsi sussistente il requisito della scientia damni

In altre parole tale ultimo requisito potrà dirsi rispettato qualora si dimostri che il debitore abbia arrecato pregiudizio alle ragioni del creditore con l'intenzione di farlo.



(Articolo del 1.04.2020) 

LE CONSEGUENZE SANZIONATORIE E RISARCITORIE A CARICO DELLA PARTE CHE, INVITATA ALLA PROCEDURA DI MEDIAZIONE EX D.LVO N. 28/2010, ADDUCA MOTIVI PRETESTUOSI PER NON PARTECIPARVI

Ai sensi dell'art. 5 del Decreto Legislativo n. 28/2010 qualora tra due parti sorga una controversia in una delle materie contemplate in tale norma (condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari), prima di adire il Giudice competente è necessario esperire la procedura di mediazione a pena di improcedibilità della domanda giudiziale.

Ebbene ai sensi dell'art. 8 comma 4bis del medesimo D.lvo n. 28/2010 "Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio."

Quindi ci si chiede quali possano essere i motivi che possono giustificare la mancata partecipazione alla procedura della parte invitata.

La norma citata dispone esplicitamente che l'assenza della parte convocata si palesa ingiustificata tutte le volte nelle quali la stessa non adduca delle ragioni oggettive che non consentono la sua partecipazione e la sua presenza dinanzi al mediatore. Tali sono ad esempio tutti quegli impedimenti che possono colpire il soggetto interessato a partecipare all'incontro ma che materialmente non può prendervi parte e che eventualmente consentirebbero al mediatore di spostare la data stabilita per il primo confronto tra i litiganti innanzi a lui.

Non possono invece costituire giustificate ragioni di assenza le indicazioni dei motivi per cui la parte non ritiene di voler iniziare la procedura di mediazione. Sicchè, tutte le volte nelle quali prima dell'incontro la parte convocata comunichi alla segreteria dell'organismo la mancanza di volontà di avviare la mediazione, così giustificando la propria assenza, il giudice successivamente adito potrà valutare tale comportamento ai sensi dell'art. 116, comma 2 c.p.c. nonché, sul piano della responsabilità aggravata, ai sensi dell'art. 96 comma 3 c.p.c.

Altrimenti si finirebbe per svilire la funzione del primo incontro di mediazione: tant'è che, durante tale primo incontro, il mediatore incontra le parti e spiega loro la finalità della procedura, le sue modalità di svolgimento e i possibili vantaggi, anche fiscali, della mediazione rispetto al processo.

Qualora venisse consentito alla parte convocata di optare per la mancata partecipazione comunicando tale scelta per iscritto prima dell'incontro, senza aver acquisito le necessarie informazioni sulla procedura e sulla controversia, ciò non risulterebbe compatibile con una decisione consapevole ed informata. Da qui il dissenso alla mediazione non potrebbe considerarsi giustificato.

Quindi solo dopo il primo incontro le parti potranno ragionevolmente esprimere la loro posizione negativa rispetto alla ricerca di una soluzione conciliativa. Tant'è vero che il comma 2 bis dell'art. 5 d l.gs. 28/2010 prevede che quando il tentativo di mediazione è obbligatorio, la condizione di procedibilità si considera avverata se le parti dopo il primo incontro non raggiungono l'accordo. Essenziale è perciò che il primo incontro si svolga: da un lato, per garantire il rispetto della condizione di procedibilità e, dall'altro, per consentire alle parti di compiere una scelta consapevole e informata di dissenso verso la mediazione.

Ne diviene che la prima conseguenza della ingiustificata mancata partecipazione è la condanna della parte invitata che non abbia aderito, ai sensi dell'art. 8 comma 4 d. lgs. 28/2010, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio.

Inoltre l'art. 116 c.p.c. prevede che "il giudice può desumere argomenti di prova ....... in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo".

Quanto alla possibilità di valorizzare, nel processo, come argomento di prova a sfavore di una parte determinate condotte della stessa (nella specie la mancata comparizione in mediazione, senza giustificato motivo, della parte convocata) la giurisprudenza di legittimità ha statuito che non vi è alcun divieto nella legge affinché il giudice possa fondare solo su tali circostanze la sua decisione, valendo come unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.

A tale proposito la Suprema Corte con la sentenza n. 443 del 17/01/2002 ha stabilito che "la norma dettata dall'art. 116 comma 2 c.p.c., nell'abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell'interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre 'argomenti di prova', e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze".

Qualora il giudice non potesse ritenere costituita la prova ai sensi dell'art. 116 c.p.c. dalla mancata comparizione della parte convocata alla mediazione, il richiamo del suddetto art.116 c.p.c nel d.lgs. 28/10, equivarrebbe a tradire l'intento del legislatore, svalutare la portata di tale norma considerandola una mera e quasi irrilevante appendice nel corredo dei mezzi probatori istituiti dall'ordinamento giuridico.

Da ciò deriva che il Giudice potrebbe ritenere formata la prova di quanto affermato dalla parte attrice nel processo (parte istante nella procedura di mediazione) anche sulla base della mancata partecipazione del convenuto (parte convocata nella mediazione).

Orbene a carico della parte convenuta, per la mancata partecipazione alla procedura di mediazione, sono previste ulteriori conseguenze ai sensi dell'art. 96 III° comma c.p.c.

A tale proposito, benchè nell'art. 8 del D.lvo n. 28/2010 non sia espressamente richiamato l'art. 96 c.p.c., quest'ultimo è norma aperta, cioé di generale applicazione. In più l'art. 13 del citato decreto, all'atto di prevedere una specifica disciplina delle spese di causa in materia di proposta del mediatore irragionevolmente non accettata, fa comunque salva "l'applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile".

Pertanto il Giudice potrà fare uso del suo potere officioso e condannare la parte convenuta anche ad un ulteriore risarcimento ai sensi dell'art. 96 c.p.c.

****

Riassumendo, quindi, alla mancata partecipazione alla procedura di mediazione della parte convenuta (parte convocata nella procedura di mediazione) dovrà conseguire:

1) la condanna al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio;

2) la formazione della prova piena ai sensi dell'art. 116 c.p.c. di quando affermato dalla parte attrice;

3) la condanna della parte convenuta ad un risarcimento ai sensi dell'art. 96 III° comma c.p.c.



(Articolo del 26.03.2020)

IL SUBENTRO AUTOMATICO DEL FALLIMENTO NEL CONTRATTO DI LOCAZIONE E I DIRITTI DEL LOCATORE

I. La normativa di riferimento

Secondo quanto stabilito dall'art. 80 L.F. in caso di fallimento del conduttore, il contratto di locazione di immobili prosegue con il curatore, che subentra nei diritti e negli obblighi contrattuali fino a quando questi non decida di recedere dal contratto.

In altre parole a fronte della dichiarazione di fallimento di una società che conduce in locazione un immobile, il curatore di detto fallimento subentra automaticamente nei diritti e negli obblighi fino a quando non venga esercitato il diritto di recesso che, proprio ai sensi dell'art. 80 LF, è consentito in qualsiasi momento.

Anche la dottrina ha avuto modo di pronunciarsi sull'argomento affermando che la disposizione di cui all'art. 80 L.F. "presuppone che il fallimento del conduttore (come quello del locatore) non interferisca con l'esecuzione del contratto di locazione in corso alla data di apertura del fallimento (nonché opponibile ex art. 45 LF alla procedura fallimentare) sicchè quest'ultimo prosegue, in capo al curatore, senza soluzione di continuità per gli effetti dello spossessamento derivanti, a carico del conduttore, dalla declaratoria del fallimento" (Antonio Caiafa, I rapporti pendenti nel fallimento e nelle soluzioni concordate di crisi, ed. Dike, pag. 393; Maffei-Alberti, Sub. Art. 80, in Commentario Breve alla Legge Fallimentare, Padova 2013; Scarafoni S. Scarafoni F., Sub. Art. 80).

Allo stesso modo altri autori hanno affermato che "In caso di fallimento del conduttore il contratto continua senza sospensione e il curatore subentra automaticamente al posto del fallito. Il curatore però può decidere in qualunque tempo di recedere dal contratto" (Crisi d'impresa e fallimento, ed. Memento Pratico Francis Lefebvre, pag. 494).

Tale orientamento è stato acquisito anche da ulteriore dottrina la quale sostiene che "La locazione dunque prosegue ex lege e il curatore subentra nella posizione contrattuale del conduttore, senza tuttavia essere vincolato dal termine di durata contrattualmente previsto, essendo a lui attribuita la facoltà di recedere in qualunque momento" (Salvatore Sanzo, Procedure concorsuali e rapporti pendenti, ed. Zanichelli, pag. 227).

Quindi il curatore non ha la scelta se subentrare o meno nel contratto di locazione al momento della dichiarazione di fallimento, ma vi subentra in automatico ferma la facoltà di recedere.

Peraltro come sostiene l'autorevole dottrina sopra citata, un'eventuale clausola di risoluzione automatica non sarebbe valida e ciò avvalla la tesi secondo cui il subentro nel contratto di locazione da parte del conduttore fallito in persona del curatore è automatico.

In sostanza per il periodo successivo alla dichiarazione di fallimento e, quindi, fino alla liberazione dell'immobile preceduta dal diritto di recesso il fallimento non può occupare gratuitamente lo stesso.

Tantomeno la legge prevede un periodo di tolleranza tra la dichiarazione di fallimento e una comunicazione di recesso, durante il quale la società fallita conduttrice possa occupare un immobile a titolo gratuito.

II. Il diritto del locatore a percepire i canoni di locazione successivi alla dichiarazione del fallimento in prededuzione, in via privilegiata

Va preliminarmente evidenziato come l'indennità spettante a titolo di anticipata risoluzione del contratto non vada confusa con il diritto del locatore a percepire i canoni di locazione.

Come sopra anticipato il fallimento automaticamente subentra nel contratto di locazione e, pertanto, sorge in favore del locatore il diritto a vedere ammesso al passivo il relativo credito in prededuzione, in via privilegiata.

Tale particolare diritto è stato riconosciuto, statuito e confermato dal Tribunale di Udine in diverse occasioni.

In primis con il decreto del s 3.05.2013 dove viene stabilito che l'indennizzo equitativo previsto dall'art. 80 LF dev'essere tenuto distinto dai canoni dovuti per l'occupazione del bene, attesa la netta distinzione dei relativi titoli, l'uno di tipo indennitario, volto a ristorare il locatore per l'anticipata risoluzione del contratto, l'altro di natura contrattuale, scaturente dallo stesso negozio di locazione e relativo a somme ancora dovute dal fallimento per il protrarsi dell'occupazione del bene (dott.ssa Irma Giovanna Antonini, https://mobile.ilcaso.it/sentenze/ultime/9284, www.ilcaso.it).

Diversi ed autorevoli Autori hanno ritenuto la correttezza dell'orientamento del Tribunale udinese, affermando che il fallimento della società conduttrice subentrando automaticamente nel contratto di locazione stipulato dalla stessa società in bonis, "assume per l'effetto l'obbligo di pagamento dei canoni sino al recesso....gli importi così maturati dovranno pertanto essere ammessi al passivo in prededuzione, trattandosi di obblighi sorti in occasione oltre che in funzione della procedura concorsuale" (Fabrizio di Marzio, Codice della Crisi d'Impresa, ed Giuffrè pagg. 527).

Il suddetto principio si fonda, peraltro, su un consolidato orientamento della Suprema Corte stabilito con la sentenza n. 694/1999, la quale testualmente dispone che "L'art. 80, comma 2, della legge fallimentare, nel prevedere per il curatore, in caso di fallimento del conduttore, la facoltà di recedere dal contratto di locazione, riconosce al locatore un giusto compenso che, nel dissenso fra le parti, è determinato dal giudice. In applicazione di tale previsione l'impugnato decreto ha ritenuto di determinarlo equitativamente nell'ammontare dei canoni maturati dalla dichiarazione di fallimento al rilascio dell'immobile ed ha rigettato quindi il reclamo, considerando che detti canoni erano stati già corrisposti. Ma in tal modo il Tribunale ha identificato il compenso volto ad indennizzare il locatore per l'anticipata risoluzione del contratto di locazione con i canoni dovuti in ogni caso per l'uso dell'immobile e cioè per un titolo diverso, finendo così sostanzialmente per negare in radice il diritto rivendicato. La discrezionalità, richiamata nella motivazione del provvedimento e di cui il giudice delegato può certamente avvalersi, non può infatti prescindere da tale netta distinzione di titoli, traducendosi altrimenti in una vera e propria violazione di legge che detto compenso prevede, indipendentemente dal dovuto versamento dei canoni" (cfr. anche N. Graziano, A. Petteruti, V. Perone, Crisi d'Impresa e procedure concorsuali, Aspetti pratici, temi e questioni, ed Giuffrè, pag. 48).

Anche successivamente la Suprema Corte ha riconfermato l'anzidetto principio stabilendo con sentenza n. 17000/2004 che "In caso di fallimento del conduttore, il contratto di locazione di immobili prosegue con il curatore, che subentra nei diritti e negli obblighi contrattuali fino a quando non decida di recedere dal contratto (arg. ex art. 80, secondo comma, l. fall.). Fino a tale momento il curatore è, quindi, certamente tenuto al pagamento dei canoni che scadono dopo l'apertura del fallimento (Cass. 27 novembre 1990, n. 11397; 28 ottobre 1998, n. 10750)".

Tale decisione è stata ulteriormente analizzata da diversi Autori di dottrina che ne hanno avvalorato il principio di base affermando che "Il curatore dovrà pagare in prededuzione i canoni di locazione maturati fino alla dichiarazione di fallimento" (Angelo Anglani, Filippo Cesaris, Guido Fauda, Fabio Marelli, Gian Carlo Sessa, Fallimento e altre procedure concorsuali, ed. Wolters Kluwer, pag. 284) e che "in caso di subentro automatico nel contratto di locazione: i canoni maturati dopo la dichiarazione di fallimento sono pagati dal curatore in prededuzione con le modalità e i termini contrattualmente pattuiti" (Crisi d'impresa e fallimento, ed. Memento Pratico Francis Lefebvre, pag. 494).

Non solo ma il Tribunale di Udine si è espresso anche antecedentemente sul punto e precisamente con il decreto del 26/03/2010 affermando che "La scelta se subentrare o meno nel contratto di locazione spetta al curatore; tuttavia il locatore è in tutti i casi tutelato dal diritto, eventuale, di esigere in prededuzione i canoni ex art. 80, legge fallimentare - R.D. n. 267/1942".

Tale linea di pensiero è stata seguita anche da altri giudici di merito ed in particolare dal Tribunale di Asti con la sentenza del 17.01.2009 con la quale è stato stabilito che "Nell'ipotesi di dichiarazione di fallimento di uno dei soggetti parte di un contratto di locazione, il curatore subentra nella medesima posizione del soggetto fallito, assumendo gli stessi obblighi e diritti. In particolare nell'ipotesi di fallimento del conduttore, il contratto prosegue con il curatore con le stesse modalità precedentemente valide, con la sola facoltà "straordinaria" di poter recedere a proprio desiderio. Però sino a tale momento il Fallimento dovrà corrispondere i canoni che scadono dopo l'apertura del fallimento essendo soggetto nell'ipotesi di inadempimento alle ordinarie conseguenze".

Infine il Tribunale di Udine, con il recentissimo provvedimento del 25.11.2019, ha ri-confermato i suddetti principi.

Alla luce di quanto sopra si può ragionevolmente sostenere che il locatore abbia diritto a percepire l'importo maturato a titolo di canoni di locazione per il periodo durante il quale è stato occupato dopo la dichiarazione di fallimento. 



(Articolo del 23.03.2020)

LETTER TO THE EDITOR OF THE UK TELEGRAPH

Referring to your article posted on Sunday 22 March, 6.53 pm, to this link

https://www.telegraph.co.uk/global-health/science-and-disease/coronavirus-latest-news-italy-uk-nhs-boris-johnson/

regarding

"Italians find ways of evading curfew

Italians have come up with a clever way to evade the country's curfew: exploiting the exemption for buying food by carrying around shopping bags all day, writes Erica Di Blasi in Turin:

Some reportedly visit the supermarket four times a day or drive around with the same shopping bag in the car for a week.

In response, the police have stepped up their checks and now, in certain cities, ask people for their receipt in order to see the time of the transaction.

In one instance in Ischia, an island near Naples, a man carrying shopping was found to have made the purchases many hours earlier when he was stopped by the carabinieri, Italy's military police force.

The rules dictate that shopping for essentials has to be done as near home as possible. You are not allowed, for example, to visit a shop further away because of its special offers.",

I want to express my opinion on the way and on the content of such article.

1) Regarding the case of someone's shopping four times in one day at the supermarket.

It is clear that the testimony described by the journalist of La Repubblica, Erika De Blasi, is not a certain source.

In fact she speaks of "someone" that told her the fact.

Did Miss Erika De Blasi remain outside the supermarket for a whole day and personally verify that a particular person went there four times in a row? I do not think so.

2) Regarding the case of the case of a person stopped by Police in Ischia (South of Italy).

As your article reports, Miss De Blasi wrote from Turin. Did she verify directly what happened in Ischia? I do not think so.

In any case, if this fact were true, considering that the Italian police is not unprepared, they carry out many checks and took the required measures against the aforementioned person. Like they always do in similar circumstances - everyone can watch on TV (Italian tv media shows exactly, in live, the measures that Italian police takes in such circumstances) - and this because, I remind, Italian police always carries out the necessary checks (i.e. the receipts).

While describing the above the Telegraph did not report, however, that in Milan - ITALY - in 10 days a new pavilion was built at the San Raffaele Hospital and another entire pavilion of the Fiera Milano City ha been equipped to be used as a hospital.

This thanks to the donations of the Italians (from Milan, from Turin etc.) and the Italian fundraisers.

Finally, I would like to point out that if British people have now placed themselves in quarantine it is thanks to the example provided by Italy (followed - therefore Italy was forerunner in Europe - from Spain, France etc.).

Moreover, today, as per the 5pm communication (Italian time) - and therefore prior to the time the Telegraph article in question was posted (6.53 pm) - an official communication was made that the growth trend of the contagion has also decreased, albeit slightly.

In the light of the foregoing, I can only conclude that from a newspaper such as the Telegraph, everyone should expect the publication of non-partial and subjective subjects.

As well as a complete picture of the situation should be provided, based on reliable sources.

Regards.

Andrea Rumiz

An Italian citizen living in Milan- Lombardy


(Articolo del 20.03.2020)

L' AMMISSIBILITA' DI UNA NUOVA RICHIESTA DI CONCESSIONE DELLA PROVVISORIA ESECUZIONE DEL DECRETO INGIUNTIVO A SEGUITO DI UN'ORDINANZA DI SOSPENSIONE DELL'IMMEDIATA ESECUZIONE (GIA' CONCESSA AB ORIGINE) DELLO STESSO

Nonostante l'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 649 c.p.c. non sia né impugnabile né revocabile, non avendo carattere decisorio, comunque ciò non preclude per il creditore- convenuto opposto- di chiedere nuovamente ai sensi dell'art. 648 c.p.c. la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo.In altre parole nell'ipotesi in cui il Giudice, alla prima udienza, conceda la provvisoria esecuzione di un decreto ingiuntivo - non immediatamente esecutivo - l'opponente non potrebbe chiedere la modifica di tale provvedimento per ottenere la sospensione. Allo stesso tempo l'opposto, qualora ad esito della prima udienza la provvisoria esecuzione non venga concessa o venga sospesa l'immediata esecuzione del decreto - già concessa all'emissione inaudita altera parte - non può chiedere la revoca dell'ordinanza di cui all'art. 649 c.p.c. Lo stesso opposto può invece presentare una nuova istanza ai sensi dell'art. 648 c.p.c. per la concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo.La suesposta tesi è stata convalidata, in particolare, dal Tribunale di Isernia con ordinanza del 29.04.2016.

(Articolo del 20.03.2020)

MANCANZA DELLA PROCURA ALLE LITI DA ALLEGARSI ALLA NOTIFICA, A MEZZO PEC, DELL'ATTO DI CITAZIONE

Come stabilito dall'art. 1 L. 53/94 può procedere alla notifica in proprio "l'avvocato munito di procura alle liti a norma dell'articolo 83 del codice di procedura civile" - e, quindi, preesistente all'esecuzione della notificazione - e che la preesistenza della procura può essere attestata, ai sensi dell'art. 41, del D.P.C.M. 22/2/2013, comma 4, mediante "l'utilizzo di posta elettronica certificata ai sensi dell'art. 48 del Codice; d) il riferimento temporale ottenuto attraverso l'utilizzo della marcatura postale elettronica ai sensi dell'art. 14, comma 1, punto 1.4 della Convenzione postale universale, come modificata dalle decisioni adottate dal XXIII Congresso dell'Unione postale universale, recepite dal Regolamento di esecuzione emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 12 gennaio 2007, n. 18." i presupposti perché il difensore possa procedere a proporre validamente l'opposizione a decreto ingiuntivo sono che: i) tale difensore sia già munito di procura alle liti, che deve essere predisposta a mente dell'art. 83, comma 3, del codice di procedura civile - con riguardo, in particolare, al caso che ci occupa - mediante copia informatica tratta dalla procura rilasciata su supporto cartaceo, sottoscritta dal cliente e autenticata di pugno dall'avvocato; ii) la procura così ottenuta deve essere allegata unitamente all'atto a cui si riferisce al messaggio PEC con il quale si effettua la notificazione come previsto dall'art. 18 DM 44/2011.

Da qui la conferma che l'allegazione della procura alla busta della notifica serve per attribuire alla procura stessa data certa anteriore alla notificazione.

Iin particolare, In tema di opposizione a decreto ingiuntivo con atto notificato senza il previo conferimento della procura alle liti, si è espressa la Suprema Corte affermando che: "Ai sensi dell'art 156 secondo comma c.p.c., per il quale è nullo ogni atto mancante dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, il difetto di una valida procura rende l'attività processuale tamquam non esset, di talché, con riferimento alla opposizione al decreto ingiuntivo, la esistenza di una valida procura è presupposto indispensabile per la proposizione della opposizione stessa, con la conseguenza che quest'ultima, se proposta da difensore non munito di procura, non è idonea ad evitare il passaggio in giudicato del decreto." (Cass. Civ. Sez. II n. 14674 del 27.06.2014).